Pubblicazioni sparse - 2



Nel numero 107 (gennaio- marzo 1993) sempre nella rivista culturale fiumana c’è l’ approfondimento su Carlo Michelstaedter, intitolato “Il dialogo della salute e altri dialoghi”. Nel numero 109 (luglio- settembre 1993) troviamo una novella, che poi verrà inserita, seppure rivisitata, nel  romanzo “Il confine di Tito”. Si intitolava “Un’opera di magia”. Ecco un breve stralcio:
Quand’era piccola, Lucrezia andava spesso a trovare la nonna Giada che abitava nella zona di San Giovanni. Di quel periodo la bambina aveva dei ricordi incompiuti, che tuttavia le ritornavano alla mente chiarissimi come in una sequenza da film, le uscivano dalla memoria con una luce improvvisa, che illuminava la vecchia Androna San Cilino, come fosse stata un palcoscenico..

Nel numero 115 (gennaio- marzo 1995) ne “La Battana” appare la novella “L’amante”, poi inserita  (con qualche rimaneggiamento) nel romanzo “Il confine di Tito” del 2007. Ecco uno stralcio della novella dove l’eroina portava il nome di Lucrezia e non il nome definitivo di “Agata”:
La parola “puttana”, così abusata, sia da suo padre che da sua madre, divenne ben presto per Lucrezia, ancora troppo piccola per intuirne il vero significato, una fantasia di donna bellissima, con unghie da gatta laccate di rosso. La donna, a cui peraltro Lucrezia non riusciva a dare un volto, veniva anche chiamata “amante”…

Ma ecco che cosa scrive alla Camillucci in una lettera datata 24 marzo 1989 il critico letterario e docente del Dipartimento di Scienze Letterarie e filologiche dell’Università di Torino, Giorgio Barberi Squarotti, (che riportiamo anche  nella sua forma originale scritta dal critico a penna). Infatti l’autrice all’epoca aveva   avuto con il critico letterario una corrispondenza abbastanza costante, purtroppo andata perduta quasi completamente  nel corso di alcuni traslochi . Squarotti in tutte le lettere le ha sempre testimoniato una critica assai benevola.

Gentile signora,
a  me i racconti di Lucrezia sono piaciuti molto, per la loro scrittura nervosa e lirica al tempo stesso e per la perfetta resa del punto di vista infantile, con lucidità, con un lieve e ironico stupore, ma senza compiacimento e pateticità.
Ne ha scritto altri? Pensa di comporre un’opera che sia una specie di romanzo per episodi?
A presto. Con i migliori auguri e saluti
Giorgio Barberi Squarotti                         [→ lettera]

L’autrice ha corrisposto per diversi anni e conosciuto bene anche lo scrittore Nino Majellaro, che le aveva sempre testimoniato apprezzamento. Significativa anche la lettera del poeta Giacinto Spagnoletti, che riportiamo  qui in pagina nella sua forma originale:  [→ leggi ]

Nella carrellata della produzione letteraria di Daria Camillucci c’è ancora da citare  l’antologia curata a quattro mani da Roberto Damiani e Claudio Grisancich “La poesia in dialetto a Trieste” (edizioni Svevo), che racchiude 149 testi di 75autori dialettali triestini, con note bibliografiche, glossario ed un ampio saggio introduttivo, dove, accanto a nomi di peso come Giglio Padovan, Manlio Malabotta ed Anita Pittoni, è riportata anche  la  poesia dell’autrice “Via del Monte” (da Ortighe e un fior), con il seguente commento: ”..Daria Camillucci con un verseggiare distillato di lontanissima ascendenza palazzeschiana..”.

Nel libro fotografico “Miramar” (foto di Giorgio Pilastro e testi di  EnzoFonda, Flavio Kulic,  Giorgio Pilastro e Marino Vocci) c’è la poesia Miramar (da Ortighe.. e un fior):

Sfiorissi
el giorno
co’ languida
malinconia.
La luce
disfandose
insanguina
i merli de le tori,
i fantasmi
rinassendo dal gnente
i sviolina
in giravolte incantade
co’ gnomi e elfi,
i bala là
dove un vecio
 sol
basa i bianchi
marmi
 e
diventa madreperla
prima de sparir

Nel numero 43 di “LUNARIO NUOVO” (agosto 1987 anno IX) a pagina 39 lo scrittore Stelio Mattioni presenta Daria Camillucci e alcune sue poesie da “Ghiri&simili”. Poesie che ancora non hanno trovato un editore disposto a pubblicarle gratuitamente in una raccolta. Ma ecco quanto aveva scritto  Mattioni nella rivista culturale siciliana, ribaltando un po’ quanto detto da tutti gli altri critici e cioè che preferivano le poesie in dialetto:

Stelio Mattioni per Daria Camillucci
Daria Camillucci non la conoscevo, tanto meno sapevo che fosse una poetessa. Sarà perché a Trieste di poetesse ce ne sono tante e lei era più schiva di altre. Meglio dire era perché, a quanto sembra, in questi ultimi tempi ha fatto leggere le sue poesie inedite a scrittori molto più autorevoli di me.
Per avere una presentazione da me, mi ha fatto il nome di Mario Grasso e solo per questo non ho saputo dire di no. Perché non sono un critico, non sono un prefatore, e figuriamoci poi di poesia, poesia con la quale ho cominciato negli anni cinquanta, quando non mi sognavo neanche di fare il narratore, come poi è successo dopo essere stato rifiutato  come poeta, soprattutto da me stesso. Un rigetto? Un rigetto dovuto all’impossibilità di far conoscere la poesia- che vuole tutto, fino allo stremo- con un lavoro quotidiano impegnativo per vivere.
Daria Camillucci mi ha portato un libretto a stampa di poesie in dialetto triestino, a cui ho dato solo un’occhiata, ricavandone l’impressione che ha fatto bene a passare a quelle in lingua. Perché inevitabilmente il dialetto porta, se non al bozzetto- caso peggiore, che non è quello della poetessa di cui parliamo- ai luoghi fisici dell'idillio, al familiare, al ricordo, con sempre quel pizzico di tenerume, di nostalgia, di affetto, che per un temperamento poetico forte rappresentano dei cedimenti inautentici.
Parlando con Daria Camillucci donna, ho scoperto che io e lei abbiamo qualcosa in comune: intanto il sangue in cui si mescolano tante razze diverse, contrassegno della più “pura” triestinità, e poi che abita nella casa in cui sono nato, nel piano sottostante, in un appartamento già in tutto uguale a quello in cui ho visto la luce, non so se fortunatamente o sfortunatamente, credo che non lo saprò mai. E siccome sono nato qualche decennio prima di lei, ecco che scrivendo per la poetessa mi sembra quasi di tenerla a battesimo. Con il solito augurio che cresca bene, visto che il futuro- ma anche il presente- non sappiamo proprio- anche se lo crediamo-padroneggiarlo.
Daria Camillucci mi ha chiesto una presentazione e, pur avendomi detto di scrivere quello che volevo, evidentemente si aspetta qualcosa sulla sua poesia. Ora, cosa dire per vincere le mie resistenze interiori a far critica, e soprattutto per un poeta quasi esordiente, io aspirante poeta ridottomi a far narrativa? Dirò non quello che dovrei, ma quello che mi viene.
La Camillucci si esprime in versi a frammenti, a raffiche (da qui i vuoti tra un refolo e l’altro) con gli occhi di fuori per vedere dentro se stessa ( e non è questa forse vera poesia?), senza dolcezze, senza indulgenze, con la pena di un inseguimento con il quale non riusciamo mai a raggiungerci se non c’è fede- indifferenza quale- o almeno speranza. Ecco quindi da parte sua una certa asprezza inconsueta in una donna poeta, certe ruvidezze, la mancanza d’amore, la solitudine, l’interloquire con sé stessa (interlocutori muti gli omini di legno blu) alla ricerca di una identità, ricerca fra l’altro comune a molti triestini, addirittura alla città. Poesia desolata, dunque? Disperata? No. Piuttosto esistenziale e dura, forte, contro il nulla.. Anche perché soffre (reagendo però) non per nostalgia, ma per un’assenza. Di un uomo (compagno) che credeva di aver trovato e non era il suo? La Camillucci è autobiografica, anche se essenziale e poco esplicita attraverso i suoi motivi poetici. Come tutti i veri poeti, insomma. Quelli che hanno una forza poetica di natura, alla quale attingono senza aver bisogno della letteratura. 
(aprile 1987)

 Da Ghiri&simili.

XXXIII
Un ramo secco
/nel mio cervello i rami s’intrecciano/
attiro lucertole e aquiloni.
Nella piazza i miraggi accadono
               si piegano
si spezzano inerti.
               Sono una eventualità.
XX
Non voglio rinchiudermi nella tua mezza vita!
Il raggio illumina parola su parola
il vago gioco di paesaggi di pietra
               /rabbrividisco al tuo sguardo bianco/
e trovo il precipizio nell’aria.
XXI
Non voglio raccontarti
             di quando
in un corridoio di emicranie e pensieri
             incontravo
Omini di legno blu
             /la danza casa-ufficio/
e dei gabbiani che scavavano
            /variopinta spazzatura del Ponterosso/
tra voli rasoterra.
XXXVIII
La ferriera non brucerà più
                     /la fessura della vagina/
lui
non giocherà ancora
tra le rosse fantasie
                   Forse con una raffinata anestesia?
                   /giro giro tondo…/
La ferriera non brucerà più.
….
XXXVII
Il confine è ansioso oggi!
          /al Nord non ci sono gli oleandri
           per le strade/
mi tramuto in punta spilli rammentando
il barbaglio di un rovo
         / la donna del ghiro tra i ritmi
           spezzati di una piazza/
ma sono sola in una stanza
che m’imprime le pareti come carne viva.

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