Ortighe... e un fior



Edito per i tipi Offset Kuhar la presentazione del volumetto, con l’introduzione del criticoClaudio H. Martelli, avvenne nel novembre del 1979 in più sale triestine, tra le quali quella del Circolo della Stampa, della Lega Nazionale e dell’Associazione “La spirale” di via Felice Venezian: in questo ultimo caso la presentazione fu affidata al regista ed attore Ugo Amodeo, mentre le liriche furono lette dagli attori Marina Rigutti eDante Fabris. Fabris divenne poi spesso negli anni successivi la voce recitante delle poesie della Camillucci, sia alla radio che in alcuni concorsi, come quello della poesia dialettale di Muggia, dove l’autrice si piazzò più volte al secondo o al terzo posto.

In proposito c’è da segnalare come la poesia “Veli di ricordi”, dedicata alla nonna Marianna morta nel 1976,  vinse la Pancogola d’argento di Servola nel 1980: Le porte /se verzi / i veli se alza:/  là xe nona /dolce de late /e sul peto /farfale de farina /e odor  de crostoli / e fritole. /Una porta se sera/ co’ un colpo de bora/  xe mama/ che cori /co’ sui cavei /perle / de neve / e coriandoli. /Una porta se verzi /una se sera /Colombina e Pierrot / Se sera la porta / su una canzon /che trema/ lontan/ con dolor. /La porta se verzi /sburtada/ dai fioi/ oro e cavei/  guance de pomo…/ e tuto se missia/ e sconfondi/ in ricordi de bora / de neve/  farina / e carneval.


Ma ecco che cosa ha scritto nell’introduzione del libro, di cui furono stampate mille copie numerate (oggi il libro è introvabile!) il critico Claudio H. Martelli che paragonò la poesia della Camillucci, sebbene ancora giovane ed immatura, dotata di un piglio quasi maschile, a quella del grande e affermato poeta triestino Claudio Grisancich:
Trenta poesie in dialetto, trenta brevi composizioni, una più una meno, sono il biglietto da visita di Daria Camillucci che esordisce “ufficialmente” come poetessa dopo un amore con il verso che dura da sempre.
Al prefattore, che vuole essere qui solo affettuoso padrino, poche brevi note per mettere in evidenza alcune caratteristiche di una voce nuova ma non certo esile né inutile.
La prima per fare una osservazione solo apparentemente paradossale: in questa raccolta di poesie di Daria Camillucci c’è poesia. Non si tratta cioè della comune raccolta di versi che tutti hanno in un cassetto, in una scatola da scarpe del ripostiglio e che improvvisamente, rapiti da libido letterario, decidono di immortalare per la dannazione degli amici e parenti e per il tormento dei critici.
Nella raccolta di Daria Camillucci c’è ricchezza di immagini, c’è sintesi, c’è proprietà di linguaggio - un dialetto triestino moderno, parlato oggi, senza traccia di archeologie letterarie- sapientemente piegato all’esigenza di esprimere ciò che si sente dentro. Una poesia che nasce sui temi esistenziali che ognuno di noi si porta dentro, quassù a Trieste. Sui temi racchiusi con feroce pudore, nell’intimo di durezze solo apparenti ma tuttavia bastevoli a farci scegliere quotidianamente il rifiuto di essere più apertamente uomini e donne veri in un mondo che sfugge la poesia e la dolcezza e la bontà come una malattia mortale, una debolezza che può travolgerci lungo ottiche diverse dal consumismo, come qualcosa che ci allontana dalla efficiente logica dell’avere per gettarci, indifesi e tutti da verificare, in quella, nuova dell’essere.
Daria Camillucci lavora su due filoni principali di immagini che affondano ambedue nella memoria e nell’esperienza autobiografica, secondo il segno distintivo della più autentica letteratura triestina. Sono le immagini dei luoghi, i volti e le voci delle persone, frammenti di frasi, modi solo apparentemente diversi per percorrere l’unica strada possibile della ricerca di noi stessi, della riappropriazione di una identità che affondi la sua autorevolezza, la sua verità, in ciò che ci lega al passato nostro, a quello di chi ci ha preceduto, dandoci vita e esperienza, affetti e dolori, sogni e speranze.
L’ultimo disperato tentativo - per questo  legittimo solo ai poeti che sono profeti o narratori inascoltati di saghe - di sentirsi legati a qualcosa di fermo, di riconoscibile nel buio che si addensa immancabilmente su tutto ciò che era prima, di duraturo, in un mondo che cambia ormai volto ad ogni minuto per nascondere le sue paurose lacune, i deserti spettrali del nulla che si tramuta- attimo dopo attimo- nei miraggi di un possibile sfrenato, assurdo, che finisce per lasciarci prostrati, soli tra soli, diffidenti, delusi.
Emergono dai versi di questa donna ricordi e visioni di una vita: così la strada dell’infanzia – via del Monte- già cara a Saba- e Androna San Cilino, così il porto come momento emblematico di una città nella grandezza e nella miseria, così le pietraie del Carso, le vie percorse dalla bora. In alcune liriche viene raggiunta una eccellente sintesi e il sentimento prorompe impetuoso, ma sobrio, tra le parole dure di un dialetto mai piegato al sentimentalismo salottiero. E’ il caso di “A nona fior del Carso”, de “La juza”, come delle due poesie d’amore “Le mie ortighe” e “Le foie de inverno”.
Daria Camillucci è indubbiamente un poeta. Grande o piccolo staremo a vedere. Lo diranno gli altri, lo dirà il caso, la fortuna, chi vorrà. Ma è poi così importante? Non è meglio pensare come sia meraviglioso che un fiore possa nascere? Che sia un’orchidea o una margherita può avere importanza solo per chi vuol racchiuderlo in una scatola per farne mercato.

Claudio H. Martelli


Da “Ortighe… e un fior”:

Via del Monte .
Budel/ rampigà/ ne la memoria/ e strada/ de alegria/ sbrissada/ sui cogoli/ sgrafai de neve./ Ali de rondine/ e incenso ne l’ombra/ de tiglio/ e nei colori dei fruti/ el turgor de tombe/ e fioi migrai/ co’ le stagioni/ e un dio/ sempre quel./ Via del Monte/ parchegio de ricordi/ e radise/ restade là/ nel grembano de carne.

Per no’dimenticar.
Son mi col mio dialeto/ son mi/ ebrea e grega/ son mi  col garbo/ mio dialeto./ Son mi/ missiada e impastada/ de gnoco e s’ciavo/ son mi/ garba Tera de Carso/ gonfia de amor/ pel mio mar/ e l’odor che ciapa/ e colora de triangoli/ le piaze./ Son mi col garbo/ mio dialeto/ che no voio dimenticar./ Son mi fior che vivi/ tra la piera/ son mi scoiera/ in una ioza de mar.

A nona fior del Carso.
Ti profumo/ de savon de lissia/ bela e ruvida/ come un fior/ nato/ tra le ortighe/ cressuda/ con la bora/ e le sbrufade/ de triestin/ e pareva slavo./ Ti tenero/ fior de ortiga/ sbocià/ tra fadighe dure/ come crepe e sentieri/ scavai/ da la tua zente/ in monumenti/ de piera./ Piera che vivi/  come sangue/ e gole strente/ de zighi/ sofigai/ da fil spinà/ in un ploc’/ senza vita.

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